La Cattedrale di Isernia, nella cappella a sinistra dell’altare maggiore, ospita la copia di una Odighitria, che si è scoperta essere un’opera ignota di Marcos Batha, iconografo cretese nato alla fine del 1400 a Candia, trasferitosi poi a Venezia nel 1538 e vissuto nella città lagunare fino al sopraggiungere della sua morte, avvenuta all’età di ottanta anni.
IL VIAGGIO DELLA MADONNA DELLA LUCE
Nella sua biografia il vescovo Mons. Giambattista Lomellina ci informa che il padre di nome Pietro e la madre Argentea erano mercanti genovesi che risiedevano nell’isola di Rodi. Nella prima parte dello scritto Lomellina non parla di ciò che ha visto con i suoi occhi, ma si basa sui racconti dei genitori che vissero la logorante resistenza dell’isola all’invasione turca durata cinque mesi. Prima della presa, che avvenne il 24 dicembre 1522, nell’imminenza della catastrofe la fiorente colonia di mercanti italiani provvide a mettersi in salvo e tra loro c’erano anche i genitori del futuro vescovo di Isernia.(1)
Mentre erano diretti a Candia, fu Pietro a ricordare che a Rodi si trovava un’immagine della Madonna che proveniva da Leros e decise di salvarla dalla possibile profanazione dei turchi.
L’icona, «divenuta da quel momento compagna di viaggio e palladio dei Lomellina, trasmigrò a Candia, ove rimase fino al 1528, anno in cui Pietro si trasferì con i suoi a Messina».(2)
Tra gli aneddoti che i genitori dovettero raccontare al piccolo Giambattista sulla grande traversata che la sua famiglia affrontò, il vescovo ne riporta uno in cui si narra di una violenta tempesta che li sorprese in mare aperto e dalla quale poi riuscirono a sottrarsi proprio grazie all’intercessione della Madonna, poiché Argentea, dovendo abbandonare suo malgrado oro e monili, non gettò nei flutti l’immagine della Vergine che quindi intervenne miracolosamente placando la furia del mare. Anche il resto del viaggio fu costellato da eventi eccezionali e tragedie la cui risoluzione viene attribuita, naturalmente, alla Madonna; infine nello stretto di Messina nacque Giambattista, appena prima di toccare le terre che da allora in avanti avrebbero ospitato la famiglia dei Lomellina.
Il futuro vescovo sentì ben presto la vocazione al sacerdozio e fu mandato a studiare prima a Roma e poi a Padova, consacrato sacerdote a 22 anni e vescovo di Isernia nel 1567, Giambattista portò con sé la sacra immagine mariana e creò per essa una cappella (la cappella dell’Assunta) all’interno della cattedrale, probabilmente dove oggi si trova la sacrestia, e stabilì come giorno di venerazione dell’immagine il 15 agosto.
La tavola iniziò ad essere venerata da tutta la comunità in modo sentito e venne arricchita di molti doni votivi e decorata con due corone auree sulla fronte della Vergine e del Bambino.
L’opera rimase esposta nella cappella creata da Mons. Lomellina fino al 1692, quando venne dato un nuovo assetto alla cattedrale e per un lungo periodo la Madonna fu esposta sull’altare maggiore, al di sopra di un quadro rappresentante san Benedetto.
Nel 1805 la cattedrale fu quasi interamente distrutta da un forte terremoto, ma miracolosamente l’immagine non subì alcun danno, però nella nuova fabbrica la tavola non trovò posto e venne dimenticata dalle autorità ecclesiastiche e dalla popolazione, in cui ormai si era spenta quella devozione prima così sentita.
Secondo Mattei fu la nuova sistemazione della chiesa a far obliare la tavola, secondo altri studiosi di storia patria, invece essa fu nascosta dietro un armadio della sacrestia anche prima del terremoto, per paura forse dei saccheggi del 1799 e poi del 1860.(3)
Solo nel 1930, mentre si cercavano opere da esporre nel museo civico, venne ritrovata e una volta riconosciuta, non fu donata al museo, ma entrò a far parte del tesoro della cattedrale fino al 1960. L’opera, che aveva perduto le corone con le quali era stata ornata, nel 1967 fu nuovamente incoronata con una cerimonia ufficiale.
Dal punto di vista della liturgia bisogna ricordare che nel 2004, a seguito delle modifiche apportate al calendario liturgico diocesano, è stata recuperata la memoria della Via Lucis nelle celebrazioni dedicate alla Vergine il 10 maggio di ogni anno.
IL NOME
A giudicare dalle fonti dell’archivio diocesano il nome dell’opera ha subito una lenta evoluzione per arrivare ad avere l’odierno appellativo di Madonna della Luce.
Inizialmente, infatti, la traduzione del termine Odighitria dal greco al latino, negli atti ufficiali della Chiesa, fu effettuata in modo abbastanza esatto apparendo come: «Tutrix Viae», cioè protettrice della via.(4)
Ma in un inventario dei beni della Cattedrale del 1818 troviamo una trascrizione errata che fa riferimento alla Madonna come «Lux viae», ovvero: «Luce della via» e poi ancora «Via lucis». Da questo a «Virgo Lucis» e infine, ai nostri giorni, all’appellativo di Madonna della Luce il passaggio è stato breve.(5)
GLI SCRITTORI LOCALI E LE LORO IPOTESI
la bibliografia relativa a quest’opera si riduceva a poche pagine edite su vecchi almanacchi o su libri dedicati in generale alla città o più in particolare alla cattedrale, solo un libretto del 1962 si occupava propriamente dell’icona ma per lo più dal punto di vista storico.
Il fatto che la firma dell’autore non apparisse per intero aveva negli anni consolidato l’ipotesi che potesse essere attribuita ad un pressoché anonimo Marco Basilio, nome questo, che presumibilmente fu appositamente creato per il vago sentore di oriente che aveva richiamato nell’immaginazione degli scrittori.
Non c’erano state fino al 2000 serie di ipotesi di attribuzione e anche i tentativi di datare l’opera non avevano dato buoni risultati, infatti l’icona era stata considerata molto più antica di quanto fosse in realtà. A. Mattei ad esempio, suggerì come datazione il XIII-XIV secolo. Un altro esempio di quando fuori strada siano andate le ipotesi precedenti è l’articolo di Viti del 1983, che riteneva l’opera del X secolo.
Solo nel 2000 l’opera è stata trattata da Vocotopulos nella miscellanea in onore di Bruno Lavagnini.
Nel 2001 Dora Catalano continuava a sostenere che l’opera fosse dell’anonimo Marco Basilio.
ANALISI DELL’OPERA
La Madonna della Luce misura 97,5 cm di altezza, 69,6 cm di larghezza e 2 cm di spessore, è stata dipinta su una tavola unica e lo strato preparatorio è stato steso su tessuto. L’opera è perfettamente rispondente al tipo dell’Odighitria aristocratousa.
La Madonna è raffigurata fino alla vita e il corpo è leggermente rivolto verso sinistra. Con il braccio sinistro tiene il bambino, mentre lo indica con la mano destra, il cui palmo è rivolto verso il proprio petto. Gesù siede sul braccio come in trono ed è raffigurato frontalmente, mentre benedice con la mano destra, nell’altra tiene un rotolo chiuso che poggia sul ginocchio sinistro. Le gambe del Bambino sono rivolte verso il centro e la sinistra è leggermente sollevata.
Due angeli innestati in altrettanti clipei a fondo rosso, vegliano sulle figure principali osservandole dagli angoli alti della composizione. Spesso, come in questo caso, sono proprio gli arcangeli Gabriele e Michele ad apparire nelle icone e nella maggior parte dei casi hanno gli attributi che li contraddistinguono, mentre nelle cosiddette “Madonne della Passione” gli angeli recano gli oggetti del martirio come segno di vittoria sulla morte terrena. Nella Madonna della Luce i due arcangeli non hanno alcun segno distintivo, piegano il capo verso la Vergine e il Bambino e le mani protese sono velate in segno di ossequio.
Nella colorazione delle vesti della Madonna si nota una discordanza dal tradizionale azzurro con cui è dipinto il maphorion della Vergine, in questo caso, infatti, il maestro ha utilizzato un rosso scuro, tendente al marrone, bordato oro, che si articola in ampie pieghe la cui profondità è suggerita dai riflessi di luce.
Sotto la parte del mantello che le copre il capo, la Vergine indossa una cuffia di colore grigio-castano, della stessa tonalità con cui è resa la veste che appare sotto il collo e sui polsi. Anche le vesti degli Angeli sono colorate allo stesso modo di quelle della Vergine: porpora scuro e grigio-castano.
Gesù bambino indossa un imation arancio che si articola in piccole pieghe e che fascia il corpo abbastanza da far intuire le parti anatomiche, le tramature della stoffa sono dorate. Le pieghe delle vesti della Madonna e del Bambino sono molto marcate e rigide ma si arrotolano lievemente agli estremi.
I volti e le mani della Vergine e di Cristo sono modellate con lievi pennellate bianche, costruite con estrema libertà e risultano più sottili nelle mani e più larghe nei visi e le ombre sono color marrone.
Alla destra della Vergine appare, sul fondo oro, con lettere tracciate in color cinabro, la scritta
,
mentre da una parte e l’altra del nimbo dorato che le circonda il capo sono visibili, da destra verso sinistra, le lettere
.
Le lettere identificative
appaiono anche sopra il nimbo del Bambino. Le aureole a rilievo della Madre e del Bambino sono state poste in un secondo momento, infatti in entrambi i casi il nimbo originale appare al di sotto di quello dorato ed è dipinto, con colore rosso, direttamente sulla tavola.
Alcune dicotomie tra quest’opera e lo schema compositivo classico delle Madonne Odighitrie, oltre che nell’inusuale trattazione del colore delle vesti, sono ravvisabili nel maphorion della Vergine che lascia intravedere la veste all’altezza del collo. Sempre nella trattazione del mantello della Vergine esso ricade per intero sul braccio destro, mentre nella maggior parte degli esemplari un’estremità giunge fino all’avambraccio e al di sotto un altro lembo copre il gomito. Il rotolo che il Bambino tiene con la sinistra appare eretto e non obliquo come d’abitudine. Infine, il piede destro del Bambino, che di regola è rappresentato di fianco, qui appare per intero.
CARATTERISTICHE STILISTICHE
Le figure vengono rese con fasci di pennellate bianche piuttosto calligrafiche, quasi schematiche, che rendono l’intera composizione rigida e le pieghe accentuate «sembrano come scavare le vesti», creando dei piani sovrapposti nei passaggi dalle superfici chiare a quelle scure che non si fondono, ma rimangono evidentemente separate. Questo schematismo nella resa della luce è sicuramente ravvisabile nel modo di trattare la zona luminosa della veste sulla spalla destra, che viene resa come un semicerchio dal quale partono pennellate parallele.
Questa tecnica appare già nel XV secolo e verrà ripresa in una serie di icone che vanno dal secondo quarto del XVI secolo fino al secondo quarto del XVII secolo, nelle pitture cretesi del Monte Sinai e in modo particolare in quelle di Teofane di Creta.
Il volto della Vergine, «con la sua espressione serena, la curva bassa e unita delle sopracciglia e lo sguardo dolce che fissa benevolmente il fedele», ricorda una Odighitria del periodo paleologo (la cosiddetta Vergine Kripti) a cui si rifà la tavola di Damaskinos, conservata nel Museo di Icone dell’Istituto ellenico di Venezia. A sua volta la Madonna di Damaskinos fu ripresa da Thomas Batha per l’icona dell’iconostasi di Santa Maria degli Angeli a Barletta. In entrambi questi esemplari l’aderenza ai motivi fondamentali delle Madonne Odighitrie tradizionali è maggiore rispetto a quella di Isernia.
Vocotopulos afferma che in ogni modo, nonostante le piccole variazioni che ogni autore apportava alla propria opera come tratto distintivo, la Vergine è resa nell’iconografia cristallizzatasi nel XV secolo.
A convalidare l’attribuzione dell’opera ad un pittore cretese della fine del XVI secolo è anche la forma delle lettere dell’A o del D, questo basterebbe, dice ancora lo studioso, per ripudiare le datazioni proposte in passato.
Rimangono dei dubbi riguardo l’esatta datazione dell’opera, infatti come spesso accade, la tavola non reca la data, inoltre l’ipotesi che potesse essere già stata dipinta nel 1522, anno in cui il Vescovo Lomellina afferma che essa fu trafugata dall’isola di Rodi, non è attendibile. In quell’anno, infatti, Marcos aveva appena 24 anni, si presuppone che fosse troppo giovane per dipingere questa tavola, che, come abbiamo detto, ha come esempi delle opere che l’autore poté vedere solo a Venezia, quindi non prima del 1538, quando aveva già compiuto 40 anni.
LA FIRMA SULL’ICONA
Sulla tavola, in basso a destra, appare la firma semievanida di colore purpureo che recita:
…
in questo punto la scritta si interrompe lasciando un’ultima lettera solo per metà, che appare come la parte sinistra di un semicerchio. La terza lettera del cognome può essere completata da lettere che in carattere greco nella loro parte sinistra sono formate da un semicerchio e cioè
.
Per risolvere l’enigma Vocotopulos si è servito del repertorio relativo ai pittori greci successivi al 1450, nel quale, l’unico pittore di nome Marcos il cui cognome comincia con le lettere Ba, è appunto, Marcos Batha. La firma viene così a completarsi nella formula:
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Testo tratto dal volume “L’icona della Madonna della Luce di Isernia” di Ulderico Iorillo, ripreso e riadattato da Jacopo Incollingo.
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1 A. Mattei, Storia di Isernia, Napoli, Athena Mediterranea, 1978; Vocotopulos, L’icona della Vergine Odighitria nel Duomo di Isernia.
2 Mattei, Storia d’Isernia.
3 A. Viti, Testimonianze pittoriche altomedievali in Isernia: affreschi del VII secolo a Santa Maria delle Monache e la “Odighitria” del X secolo della Cattedrale.
4 Mattei, Storia d’Isernia, p. 505. 5 G. Gnolfo, La Madonna della Luce a Isernia: note storiche di un’icona bizantina.